Sette vite come i gatti

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Una sera mentre cenavo guardavo distrattamente la tv. Fuori faceva freddo e anche se non era stata una brutta giornata, riflettevo sul fatto che non era accaduto niente di particola

Alla televisione trasmettevano un'intervista fatta a un noto presentatore che proponeva il suo ultimo lavoro, un libro che raccontava la sua vita. Descriveva quanto di caratteristico, importante e determinante per la sua carriera, gli fosse successo quando era giovane. Questi avvenimenti avevano reso la sua esistenza una grande avventura.

Vivendo tutte queste esperienze disse che si era trovato per quattro volte sul punto di morire, e che in parte per audacia e un po' per fortuna le aveva tutte superate. Aggiunse che gli uomini hanno sette possibilità di cavarsela di fronte alla morte, quindi a lui ne rimanevano ancora tre. Quest'affermazione mi colpì. M'incuriosì perché mentre la raccontava, ebbi l'impressione che non stesse recitando.

Gli uomini di spettacolo partecipano spesso alle trasmissioni televisive. Lo fanno per pubblicizzare l'ultimo lavoro, l'ultima conquista, oppure semplicemente per narcisismo. Hanno bisogno di visibilità, e non potendo permettersi brutte figure recitano. Recitano nelle domande, recitano nelle risposte, recitano sempre. Eppure non mi sembrava che lui in quel momento stesse recitando.

Appoggiai il bicchiere sul tavolo, senza dare importanza a quanto avevo appena udito. Pensai alla battuta che si fa quando qualche malcapitato se la cava per il rotto della cuffia "e' stato fortunato, ha sette vite come i gatti".

Terminata la cena, sparecchiai la tavola. Mi avvicinai al lavello, accesi il piccolo neon che sta tra i due mobili e cominciai a lavare le stoviglie. Non avevo molto da lavare, mi capitava spesso di cenare solo. L'acqua tiepida che scorreva sulle mani mi procurava un senso di piacere.

Non riuscivo tuttavia a dimenticare quanto avevo appena udito alla televisione.

Probabilmente era solo un'intervista preparata per fare spettacolo e creare curiosità. Viviamo in un mondo di cartapesta, dove tutto è finto, pensai. Nonostante le considerazioni fatte, la curiosità cresceva dentro di me.

Terminate le operazioni in cucina, controllato che tutto fosse in ordine, mi diressi verso le scale che portano al piano superiore.

Salii e mi avviai verso la sala, l'unico posto della mia casa, dove mi sento a mio agio, dove posso rilassarmi, dove mi ritiro ogni sera per ritrovarmi con me stesso.

Faceva freddo. Accesi la stufa, la grande stufa a legna che si trova nell'angolo in fondo a sinistra, e mi sedetti sul divano che le sta di fronte. Il clima molto umido dalle nostre parti indispone. I due termosifoni non riuscivano a riscaldare la stanza perché è molto grande, e inoltre ha il soffitto a più di tre metri d'altezza, appartenendo a una casa costruita negli anni '50.

Subito dopo mi alzai. Aggiunsi un altro pezzo di robinia al braciere della stufa e tornai a sedere. Fissavo la fiamma mentre lentamente sopraffaceva la legna.

Passato qualche minuto cominciai a sentire i primi benefici portati dal calore. Cambiai posizione e mi coricai.

Il tepore che ora mi giungeva era gradevole. Misi il doppio cuscino sotto la testa e mi rilassai.

Fissavo il soffitto. Ero stanco, l'aria era satura di quel profumo di legna bruciata, quello che impregna i vestiti, che gli altri chiamano puzza di fumo e che a me piace tanto.

Sentivo le palpebre lentamente chiudersi. Il momento che stavo vivendo mi piaceva, solo, davanti alla stufa e soddisfatto della giornata appena trascorsa. Mi addormentai.

S

ono nato a Rea, sulle rive del Po'. Un piccolo paese costruito sulla sponda destra del fiume.

Questa comunità un tempo basava la sua economia su questo corso d'acqua. Ora il tutto è limitato a qualche pescatore dilettante, e alle mangiate fatte sulle barche con capanna, tirate a secco.

A tutti i bambini era proibito giocare sulle rive del fiume.

Anche i miei genitori non passava giorno senza ricordarmelo.

Avevo sei anni, ed ero un bambino molto vivace e intraprendente per la mia età. Trovavo interessante e irresistibile tutto quanto mi era proibito.

Era estate e faceva molto caldo. Sotto il portico, che i miei genitori usavano come pollaio, insieme con altri mille attrezzi, che all'occorrenza trasformavo con la fantasia in pistole, spade, disintegratori o lanciafiamme, ritrovai un vecchio ombrello. La tela era strappata, del tutto irrecuperabile per qualsiasi gioco, ma con gli archetti di metallo e uno spago sottratto dalla cantina mi costruii un arco e una freccia.

L'avevo visto fare tempo prima da un ragazzo più grande di me. Con soddisfazione costatai che funzionava perfettamente, nel collaudo avevo infilzato una gallina.

Mi resi conto di aver combinato un guaio. Presi l'arco e la freccia che avevo appena estratto dal corpo della gallina e li buttai oltre il reticolato, nell'orto del vicino.

Ritornai in cortile e mi sedetti sul sostegno di un ombrellone dove la mamma, dall'interno del negozio che gestiva, potesse vedermi, tranquillizzarsi, senza venire a controllare cosa stessi facendo.

Giocavo con il mio cappellino blu con l'ala, che m'imponevano di portare per ripararmi dal sole, e vagavo per il cortile annoiato.

Sul lato sinistro della porta della cantina avevamo un rubinetto e al suo fianco una manichetta. L'allungai e dopo aver aperto l'acqua, diressi il getto verso il cane. Stavo facendo una buona azione, volevo rinfrescarlo. Si chiamava Piripicchio, aveva il pelo lungo e rossiccio, ed era sempre stato li. Inutile dire che al primo contatto con l'acqua si allontanò di corsa, scappando dall'angolo all'ombra dove si era rifugiato e scomparve.

Non sapendo cosa altro fare salii sulla bicicletta e approfittando della distrazione di mamma, intenta a servire un cliente che era entrato in quel momento, "Scappai"dal cortile.

Mi diressi verso il sentiero che portava al Po'. Non c'era in giro nessuno. Salii sull'argine attraversai la strada e vidi il fiume. Senza esitare puntai verso il "sabbione" la grande spiaggia sulle sue rive. Proseguii pedalando e andai verso il ponte di Bressana, che si vedeva in lontananza.

Continuai con la bicicletta per circa cinquecento metri, poi mi trovai di fronte un grande solco profondo alcuni metri, che conduceva al Po' un piccolo rivolo d'acqua proveniente da chissà dove.

Abbandonai la bicicletta, e a fatica mi calai lungo la sponda. Calzavo un paio di sandali che mi facevano scivolare. Superato l'ostacolo, proseguii a piedi nella mia avventura. Sulle rive del fiume, la sabbia quasi bianca, era bollente e infuocata dal sole. Avrei voluto togliermi i sandali, per non sporcarli ma era impossibile camminare a piedi scalzi.

Il paesaggio che mi circondava sembrava un deserto, dove le dune erano interrotte da sporadiche buche create dal Po' nei momenti di piena, e da pezzi di tronco d'albero, portati dalle acque da posti lontani.

Alcune di quelle buche erano molto grandi, con il fondo fangoso, contenenti acqua sporca e stagnante.

Ero incuriosito o meglio affascinato dal paesaggio. Ogni situazione che vivevo mi dava modo di scoprire cose nuove.

Immerso nei miei sogni fantastici, fui distratto da un vociare di persone, che proveniva dalle mie spalle. Mi girai, e dalla parte del fossato che avevo appena superato, vidi arrivare due bambini accompagnati da un adulto.

Mentre si avvicinavano, riconobbi nell'uomo il Tonino. Sapevo chi era, abitava in fondo al paese. Il bambino e la bambina capii più tardi che erano i suoi nipoti, ma loro non li avevo mai visti. Attraversarono il fossato mi passarono vicino ignorandomi. Al loro passaggio udii Tonino dire che erano quasi arrivati, che la buca dove si poteva fare il bagno era poco più avanti. Ovviamente li seguii.

Arrivati sul posto, mi resi conto che aveva ragione. L'acqua era profonda circa cinquanta centimetri nel punto più alto, e aumentava gradualmente andando verso il centro. Il fondale era meno fangoso di altri, e poi Tonino disse che li, si poteva fare il bagno, che non c'era nessun pericolo. Questo mi rassicurò.

Lui si sdraiò su di un asciugamano al sole. I bambini si spogliarono e rimasti in costume da bagno entrarono in acqua.

La presenza di una persona adulta mi diede sicurezza. In un attimo rimasi in mutande e mi buttai con loro.

Giocammo per almeno due ore. Socializzai subito con i miei coetanei, mentre il loro zio continuava a ignorarmi, anche se ero sicuro che mi aveva riconosciuto.

In tutto quel tempo mi rivolse la parola "una" sola volta, per dirmi di essere meno esuberante nei miei giochi.

Ci divertimmo molto, facemmo i "tuffi", le capriole. Io ero il subacqueo che cacciava gli storioni. Penso di aver bevuto almeno metà dell'acqua contenuta in quella buca.

Non mi accorsi di quanto tempo fosse passato, ma Tonino richiamò i nipoti dicendo loro che era ora di tornare a casa.

Uscimmo dall'acqua che nel frattempo avevamo reso melmosa. Eravamo completamente infangati. Invitò i nipoti a seguirlo. Si diressero verso il fiume ed io andai con loro.

Mentre camminavano Tonino indicò un'insenatura creata dal Pò e spiegò che in quel punto il fiume non era pericoloso perché ancora non era stato dragato, e raggiungeva una profondità di circa un metro.

Disse anche che era pericoloso attraversarlo a piedi, pur essendo possibile, la corrente al centro era molto forte.

Entrammo nel fiume rimanendo vicino alla riva. L'acqua non era profonda e Tonino sollecitò i nipoti a pulirsi dal fango. Nonostante imitassi tutto quello che facevano loro, lui continuava a ignorarmi.

Poco dopo uscimmo dall'acqua. Eravamo puliti, e mentre ci vestivamo, continuammo a giocare.

Essendo bagnati, giocando con la sabbia, ci sporcammo di nuovo le gambe ritornammo dentro per lavarci. Rifacemmo questa cosa parecchie volte. Avevamo trovato un nuovo gioco.

Alla quarta volta arrivò il richiamo di Tonino. I miei compagni di gioco lo raggiunsero e insieme si avviarono verso casa. Avevo le gambe sporche. Di corsa andai verso il fiume, saltai nell'acqua per lavarmi e tornare a casa. Affondai. Andai sott'acqua per almeno tre o quattro metri.

Non mi ero accorto che giocando mi ero spostato a valle, per più di una decina di metri, dove il fiume era molto profondo.

Mentre affondavo e davo le spalle alla sponda, istintivamente ruotai su me stesso, e cominciai a nuotare come avevo visto fare ai cani. Non sapevo nuotare, non lo avevo mai fatto. Stavo rischiando la vita, ma probabilmente non mi rendevo conto, perché non mi feci travolgere dal panico. Chiusi gli occhi e continuai a muovere i piedi e le mani con movimenti regolari Ad un certo punto, contemporaneamente sia a contatto con le mani che con i piedi sentii la sabbia. Era la sponda che in modo graduale scendeva verso il fondo.

Continuai con il movimento cadenzato. Avevo trovato nella sabbia un appiglio, dove arrampicarmi. Lentamente cominciai a risalire. Non smisi di nuotare fino a quando non sentii che con la testa ero fuori dall'acqua.

Fortunatamente la sponda scendeva dolcemente verso il fondo. Uscii dall'acqua spaventato, cercai con lo sguardo Tonino e vidi che si trovava nello stesso punto dove lo avevo lasciato quando ero saltato nel fiume. In quel momento mi parlò, mi disse di andare a casa che era pericoloso per me rimanere sulla spiaggia solo.

Lo fissai e risposi:- Io so nuotare-

Prese i nipoti per mano e se ne andò.

Mentre lo vedevo allontanarsi, mi chiedevo perché non mi avesse aiutato. Lui sapeva nuotare.

Tornai a casa fradicio. Raccontai che mi ero bagnato lavando la bicicletta, ovviamente non mi credettero .

Il giorno dopo mentre seduto in cortile scontavo il castigo che mi era stato inflitto per la fuga del giorno prima, vidi la mamma venire con passo deciso verso di me. Si avvicinò. Aveva le lacrime agli occhi. Mi diede uno schiaffo e mi disse che ero stato un incosciente, e che dovevo ringraziare Tonino perché mi aveva salvato la vita.

M

i trovavo nel cortile di casa, avevo circa sette anni, capelli biondi con tanto di pettinatura a "banana".Vestivo pantaloncini corti sorretti da bretelle, e una maglietta con righe orizzontali gialle e grigie. Questa era in sostanza la mia divisa.

La mamma mi aveva appena sgridato.

Abitavo al centro del paese. La mia casa si affacciava sulla piazza principale e dall'altra parte della strada c'era la chiesa.

La sera prima quando si era fatto buio, ero andato nella piazzetta davanti alla chiesa e avevo scritto una parolaccia sul marmo bianco che ne ricopriva la facciata. Avevo scritto FIGA. Non era stata tutta farina del mio sacco. Quando commisi il misfatto, mi trovavo in compagnia di un altro bambino, di un paio di anni più grande di me. L'idea era stata mia perché volevo vendicare i miei genitori. Loro avevano un'attività commerciale –Bar, Balera e Drogheria – nelle vicinanze della chiesa, e il parroco li ostacolava in tutte le loro attività. La balera luogo di perdizione diceva.

Non sapevo cosa scrivere e fu il mio amico a suggerirmi la parola. Io non ne conoscevo neppure il significato.

In un primo momento pensai di scriverla a caratteri cubitali, sul grande portone della chiesa. Poi, forse per paura, decisi di farlo ai lati dell'ingresso e più in piccolo. In fine presi come lavagna una parte del marmo bianco nascosta dietro un angolo, sul lato sinistro del portone d'ingresso, per vedere la scritta bisognava proprio mettersi a cercarla.

La mattina seguente, di buon'ora, il parroco si presentò dai miei per le rimostranze. Il mio amico dopo avermi istigato e aiutato a compiere l'atto vandalico, corse dal parroco per riferire l'accaduto.

La mamma mi dette una spugna, un barattolo di detersivo e un secchio contenente acqua, invitandomi ad andare subito a pulire.

Mi sgridò, ed io vidi che era molto arrabbiata, ma non mi punì come faceva di solito quando la combinavo grossa. Si limitò a farmi pulire dove avevo sporcato, e a redarguirmi con frasi di circostanza. Probabilmente si comportò cosi perché da qualche settimana non mi sentivo bene. A volte durante la giornata mi si alzava la temperatura in maniera ingiustificata. E mi sentivo sempre stanco.

Avevo perso parecchie giornate di scuola. Il pomeriggio non andavo più a giocare con gli amici, ero dimagrito e avevo un colorito pallido. Il medico di famiglia mi aveva visitato più volte, non riscontrando patologie di alcun genere.

La ricetta che aveva suggerito alla mamma era " al mattino un bel caffè forte e poi mandalo a scuola". A quei tempi succedeva. Secondo lui non era altro che una forma influenzale.

Questa situazione durava però da troppo tempo. La mamma nonostante la contrarietà del medico, con l'aiuto della zia infermiera, riuscì a prenotare una visita con esame del sangue alla clinica "Città di Pavia ".Dopo qualche giorno, al mattino di buon'ora, partimmo con la corriera della SGEA alla volta della città. Fatta la visita e i prelievi ci fecero accomodare in sala d'aspetto Di solito l'esito degli esami veniva comunicato dopo qualche giorno, ma a noi dissero di aspettare.

Non ho mai capito quale problema avessi avuto, però ricordo quello che disse il medico alla mamma.

-Vada a casa a prendere il pigiama, suo figlio rimane qui. Se non fosse venuta oggi, sarebbe stato troppo tardi.-

Iniziammo subito le cure e rimasi ricoverato alcune settimane.

Quando mi dimisero per Suor Maria fu una liberazione.

Qualche tempo prima l'Unione Sovietica aveva mandato nello spazio una navicella. Era il primo viaggio intorno alla terra. Quell'evento fu eccezionale. Tutti ne parlarono e nei negozi si vendevano giocattoli simili a quell'astronave. La mamma per tenermi buono e, per rendere il mio soggiorno meno gravoso mi comprò lo "SPUTNIK".

Si chiamava così la navicella russa. Aveva due lucine rosse nella parte posteriore che si accendevano a intermittenza, e una sirena interna di tipo bitonale, che si attivava quando appoggiavo il giocattolo sul pavimento e lo spingevo.

Il giorno stesso che ricevetti il regalo Suor Maria m'invitò ad andare a giocare lontano dalla camera dove dormivo, per non disturbare miei compagni di stanza, e individuò nella sala d'aspetto il luogo adatto per i miei divertimenti.

Dopo poco tempo in seguito ai reclami dei visitatori, fui sfrattato anche da lì e siccome non esistevano altri locali idonei, il giocattolo mi fu requisito.

Le mie condizioni migliorarono rapidamente, cosi fui dimesso e tornai a casa. Quando i medici vennero per salutarmi dissero che ero stato fortunato.

E

ra una bella giornata d'autunno. L'aria si era leggermente rinfrescata, le giornate accorciate ma i colori che la natura offriva e il calore degli ultimi raggi di sole lo rendevano il periodo dell'anno che preferivo.

Il Natale precedente avevo ricevuto come tutti i bambini, i doni di Natale, che mi aveva portato Gesù Bambino.

La nostra era una famiglia povera, quindi i regali furono modesti.

Ricordo che il mattino seguente quando mi svegliai corsi verso la camera adiacente alla mia, dove la mamma aveva addobbato l'albero di Natale, e dopo un veloce sguardo d'insieme rimasi deluso. Cercai il regalo che più desideravo, ma non c'era. Nella letterina a Gesù Bambino l'avevo scritto.

Si trattava di una mitragliatrice vista esposta all'UPIM di Pavia. Tutta di metallo, di colore giallo e rosso con i profili cromati, che poggiava su un trepiede anch'esso di metallo. Sul lato destro aveva una manovella che ruotata regolarmente, riproduceva uno scoppio continuato, come fossero munizioni vere.

Al suo posto trovai una piccola mitraglietta tutta di plastica, leggermente più grande di una pistola, che non assomigliava a quello che mi aspettavo. Apostrofai Gesù Bambino com'è meglio che non ripeta, e inoltre non riuscirono a convincermi che Gesù era povero. Motivo di giustificazione adottato da mamma e papà. Se lui poteva fare tutto, sarebbe potuto andare all'UPIM a comprare la mitragliatrice che io desideravo.

L'unico regalo che si distingueva dagli altri era una bicicletta da corsa, di colore rosso scuro, con la borraccia bianca fissata sul manubrio, come usavano una volta i ciclisti. Era bella, ma non gradita. Di due misure più grandi, come i vestiti.

Mi compravano i vestiti una misura in più – Così, ti andrà bene anche il prossimo anno- dicevano. Non apprezzata anche perché l'aveva regalata lo zio di Pavia, l'unico benestante tra tutti i parenti.

Quello che incontravo sempre malvolentieri. Lavorava alla Camera di Commercio, ed era un cultore del Manzoni.

Quando andavo a trovarlo, riduceva il nostro colloquio a una domanda, ogni volta su argomenti diversi, e al mio cenno di risposta m'interrompeva dicendo: – Vedi tu dovresti leggere "I Promessi Sposi", perché anche a quei tempi …. Ecc.

Tutto quello che facevo, aveva dei riferimenti a quel romanzo. Non ho mai letto "I Promessi Sposi", nemmeno quando a scuola avrei dovuto farlo. Odiavo sia lui sia "I Promessi Sposi"

Presto cominciai a usare la bici. Non riuscivo a sedermi sulla sella e pedalare, allora infilavo la gamba all'interno del triangolo delle canne e scorazzavo dal cortile alla balera.

Dopo qualche mese ottenni l'autorizzazione a uscire dal cortile ed ebbi la possibilità di sfogare tutta la mia vivacità con lunghe corse sulla via principale del paese, strada tutta diritta e poco frequentata da automobili.

Venne l'autunno. Ero cresciuto e dalla sella riuscivo a raggiungere i pedali. I miei genitori acquisita più fiducia in me cominciarono ad affidarmi consegne lungo tutto il paese.

Un giorno mentre pedalavo felice sull'argine che proteggeva le case dal Po', vidi in un orto sottostante una grande zucca. Mi sembrò bellissima. Il reticolato che recintava l'orto era già stato divelto e ripiegato su se stesso. Mi fermai e guardai intorno. Non c'era nessuno……… Dopo un attimo ero di nuovo sulla bicicletta e stavo pedalando a tutta, con una bellissima zucca sul manubrio "basso" della mia bici da corsa. Arrivai fino all'incrocio del Canarazzo. Velocissimo svoltai a sinistra e imboccai la discesa che conduceva verso la via principale del paese. Diedi ancora alcuni colpi di pedale e mi appiattii sulla zucca come fanno i campioni quando vanno in discesa. La mamma sarebbe stata orgogliosa di me.

In prossimità dell'incrocio mi spostai sulla parte destra della carreggiata, per impostare la curva a sinistra. Avevo preso velocità e l'aria che mi soffiava sulle orecchie m'impediva di sentire tutti i rumori circostanti. Avrei dovuto solo frenare per rallentare un poco, svoltare a sinistra e volare verso casa. Allungai le braccia ma la zucca m'impediva di raggiungere le leve dei freni. Ebbi un attimo di esitazione.

Le abitazioni che si trovavano su entrambi i lati della strada m'impedivano di vedere se dalla via principale arrivasse qualcuno. Girai la testa di lato per udire eventuali mezzi in avvicinamento e non sentendo rumori mi preparai ad affrontare la curva a tutta velocità. Piegai la bicicletta come si fa con le moto e svoltai. L'impatto fu inevitabile. Dal centro del paese stava arrivando in moto Bacicéla, l'oste che gestiva il locale che si trovava sulla via principale.

Aveva sostituito da poco la marmitta, perché era diventata troppo rumorosa.

Mi ritrovai seduto sull'asfalto, stordito e confuso. La moto era finita nel fosso e Bacicéla aveva una piccola ferita sulla gamba destra.

Lo sfortunato venne verso di me e mi chiese se stavo bene. Io non risposi, mi alzai, appoggiai una parte della bicicletta sulla spalla infilando il braccio destro tra la canna e i pedali. Con la mano sinistra raccolsi l'altro pezzo, il manubrio con attaccata la ruota anteriore ovalizzata, e mi avviai verso casa.

La bici era distrutta. Percorsi pochi metri. Mi voltai cercando con lo sguardo la zucca. Era finita in mille pezzi, sparpagliati dappertutto.

Più in alto vicino al fosso vidi la borraccia ma non la raccolsi. Tornai a casa a piedi, passando dall'argine per la strada più lunga.

Anche questa volta mi era andata bene.

L

a balera mi piaceva.

Mi piaceva vederla alla sera con tutte quelle luci colorate, con la musica, piena di gente, tutti vestiti "bene". Si entrava percorrendo un lungo corridoio, dove all'inizio, attraverso una feritoia del muro, Beppe staccava i biglietti e raccoglieva i soldi.

La pista da ballo era al centro, pavimentata con piastrelle di graniglia e sollevata dal resto dell'aia di qualche centimetro. Le piastrelle di colore diverso, disposte in maniera geometrica, riflettevano la luce diffusa delle lampade dei lampioni e dipingevano nel buio della notte le figure dei ballerini che apparivano e poi scomparivano, come in una danza di fantasmi.

Eravamo ai primi degli anni sessanta. Non esistevano le luci psichedeliche, il laser e tutti gli effetti speciali di oggi. Le luci della balera rappresentavano la novità.

La pista da ballo era quadrata. Sul lato che ci si trovava di fronte entrando era stato costruito il palco.Tutto in muratura, coperto, disposto su due livelli per meglio disporre i musicanti.

Sul lato sinistro, fissato alla parete, era stato installato il quadro elettrico che comandava tutti gli impianti.

Sui quattro angoli della pista e a metà dei tre lati, erano stati installati sette lampioni a forma di fungo, alti, con il fusto dipinto di rosso e di verde, disposti in modo alternato.

Alla base s'infilavano in un grosso vaso pieno di terra, alto sessanta centimetri, di forma quadrata, che scendeva verso il basso restringendosi. In questi vasi erano stati seminati fiori che aggiungevano freschezza, colore e profumo a quel paradiso.

I lampioni a comando diffondevano luci diverse. Una chiara per i momenti di conversazione, una verde e una rossa singolarmente oppure associate, durante il ballo.

Un'altra novità che mi stupiva era quella palla appesa al soffitto del palco, dove erano stati incollati tanti piccoli specchi.

Questa palla girava in continuazione e rifletteva la luce di due faretti puntati su di essa, come fossero mille lucciole, onnipresenti ma irraggiungibili.

Al di fuori della pista da ballo, per tutta l'area erano stati disposti tavolini, ognuno con quattro sedie, tutti dipinti di verde, lo stesso verde dei lampioni e delle lampade.

Non mi era permesso andare nella balera la sera, per ovvi motivi. Essendo un bambino quando lo spettacolo cominciava, dovevo già essere a letto, e poi mi dicevano che non era posto per bambini.

Di norma ubbidivo. Quando però sapevo che il cantante di turno a esibirsi era famoso non resistevo e dopo che la mamma se ne era andata, convinta che stessi dormendo, mi alzavo e andavo nella camera dei miei genitori che aveva una finestra che guardava verso la BALERA.

Mi rannicchiavo su di una sedia che spingevo vicino alla finestra e incollavo il naso al vetro.

Di personaggi famosi ne vennero parecchi a esibirsi, quelli che al momento erano i più conosciuti a livello nazionale.

Uno di questi lo ricordo in maniera particolare, LUCIANO TAIOLI. All'epoca era il numero uno.

Una settimana prima cominciarono i preparativi. Tutti erano nervosi. Io non mi rendevo conto cosa significasse, per il gestore di una balera, avere ospite il cantante più famoso del momento. Mio padre normalmente paziente, sempre disponibile a perdonarmi, in quei giorni mi trascurava e si rivolgeva a me con tono severo e distratto.

I manifesti andarono direttamente ad affiggerli i collaboratori di papà in tutta la zona. Furono inoltre reclutati gli zii Francesca e Adriano, di Pavia, per aiutarci al bar.

Quella sera non so se la mamma si dimenticò di mandarmi a letto, oppure se fece finta di dimenticarsi per permettermi di partecipare alla festa, ricordo che a serata inoltrata mi chiamò in disparte, mi disse che non avrebbe avuto il tempo di occuparsi di me, mi ricordò cosa fare e cosa mi fosse proibito, e che sarei potuto rimanere alzato fino a tardi.

Mancavano pochi minuti alle ventidue Nella balera molte persone stavano già ballando con le musiche del juke box. A un certo punto si levò un brusio unanime, tutti dicevano che era arrivato. Corsi in cortile.

Lo vidi scendere da una 1100 Fiat, il modello bombato, quello dove le portiere si aprivano in avanti, scese dalla parte del passeggero, non guidava lui. Di statura media, robusto, molto elegante, portava il cappello. Tutti gli andarono incontro. Salutò e ringraziò per l'accoglienza, poi con le braccia si fece largo e chiese di mio padre, che stava lavorando dietro al banco del bar. Andò da lui si scusò per non essere arrivato prima ma disse che i suoi accompagnatori avevano avuto difficoltà a trovare il paese.

Mi meravigliai di questo perché tutti gli altri artisti erano arrivati alla stessa ora o addirittura più tardi.

Mentre la sua orchestra, preso possesso del palco, accordava gli strumenti, in una camera riservata lui si tolse il soprabito, il cappello e si preparò per l'esibizione.

La mamma mi prese per mano, bussò alla porta, mi condusse da lui e mi presentò.

Fui accolto con un sorriso. Mi strinse la mano e mi chiese se volevo salire sul palco a cantare con lui.

La mamma lo ringraziò, si congedò velocemente con la preoccupazione dipinta sul viso, mi bloccò in un angolo e fissandomi negli occhi mi proibì di avvicinarmi al palco per tutta la sera. Poi scomparve tra la gente.

Taioli uscì dalla stanza, attraversò la pista da ballo di corsa salì sul palco e iniziò il concerto. Aveva qualcosa di diverso dagli altri molto gentile disponibile, sorridente, umile.

La serata volò. Lo spettacolo che piacque molto al pubblico continuò per più di un'ora oltre l'orario previsto.

Era un "Signore", con una bellissima voce.

Verso la fine della serata, nonostante la grande soddisfazione del pubblico e le buone entrate del bar, mio padre e mia madre erano nervosi. Discutevano animatamente qualcosa non era andato per il verso giusto.

Sentii Beppe dire che non avevano i soldi per pagare il cantante.

Sommando gli incassi della vendita dei biglietti, a quelli del bar, non si arrivava alla cifra pattuita per pagare il signor Taioli. Mancavano trentamila lire.

Sentii papà dire a Beppe di trattenere il cantante il più possibile nella balera, mentre lui con le consumazioni cercava di recuperare i soldi mancanti.

Dopo qualche minuto vidi arrivare il Sig. Taioli al bar. Era già stato informato di quanto stava accadendo. Si fece versare una bibita, chiamò mio padre e senza dargli il tempo di spiegare gli disse che c'era stata un'ottima organizzazione, che la balera era la più bella dove gli era mai capitato di esibirsi, peccato che fosse stata costruita in un posto fuori dal tempo, in un paese dimenticato da Dio.

Posando il bicchiere sul banco del bar aggiunse che per il suo compenso andava bene quanto era stato incassato. Subito un suo accompagnatore s'intromise nella discussione, reclamando per la sua decisione. Lui lo fissò senza dire niente e il collaboratore ammutolì. Salutò tutti cortesemente, s'infilò il soprabito e si avviò verso l'automobile. Era un "Signore", con una bellissima voce.

Si era fatto molto tardi. Fui spedito a letto, i miei genitori tirarono mattina facendo le pulizie e riordinando.

Il giorno seguente non riuscii ad alzarmi presto, come facevo di solito, quando la sera prima si era ballato, ma alle dieci ero pronto per fare il giro in cerca di oggetti perduti.

Durante le serate di ballo alle persone cadevano un sacco di cose dalle tasche. Ritrovare soldi era normale. Cinquanta e cento lire succedeva spesso. Una volta trovai anche cinquecento lire.

Il terreno intorno alla pista era cosparso di ghiaia e se cadeva qualcosa a terra, era difficile ritrovarlo nell'oscurità della notte.

Mi capitò di trovare di tutto, penne per scrivere, fermacravatta, accendini, una volta addirittura un orologio. Mentre scrutavo il pavimento in cerca di tesori, arrivò un elettricista per fare manutenzione. Andò sul palco, si avvicinò al quadro elettrico e iniziò il suo lavoro.

La mia ricerca quella mattina non portò frutti. Forse perché ero più addormentato del solito, mi sedetti su una sedia e osservavo il lavoro dell'elettricista.

Dopo poco, alzò la testa dal lavoro e mi fece cenno di raggiungerlo. Mi guardai alle spalle per essere sicuro che fossi io la persona che stava chiamando e poiché ero l'unico presente, mi alzai di scatto e corsi verso di lui.

In un attimo fui al suo fianco. Aveva smontato il quadro elettrico, mi mostrò un interruttore e mi chiese di attivarlo quando lui me lo avrebbe chiesto. Raccolse la borsa dei ferri e si diresse verso il ripostiglio, che si trovava vicino all'uscita.

In quel ripostiglio era stato installato il contatore che portava corrente elettrica alla BALERA. Entrò e poco dopo mi gridò -DAI – Alzai l'interruttore come mi era stato detto. Passò qualche minuto, e l'elettricista sporse la testa dal ripostiglio e mi disse di abbassare così feci.

Aspettai ancora e udii di nuovo –DAI! - Alzai l'interruttore e poi il comando di abbassare, e abbassai. Tutto questo si ripeté parecchie volte.

All'ennesimo comando –DAI- alzai l'interruttore e fui investito da una scossa elettrica, che mi fece tremare. La cosa strana fu che non venni scaraventato lontano, ma rimasi come incollato con la mano a quell'interruttore, senza potermi staccare.

Mi dibattevo come un epilettico –ABBASSA!- sentii gridare, -ABBASSAA!- urlò di nuovo, ma non riuscivo a staccare le dita e non capivo cosa mi stesse succedendo.

Tremavo in modo convulso e guardavo la porta lontana del ripostiglio.

Passarono pochi minuti che mi sembrarono ore. Poi comparve il volto dell'elettricista, che subito si ritrasse e dopo un attimo fu tolta la corrente e potei staccare la mano dal quadro.

Avevo parte della prima falange del dito pollice e dell'indice della mano destra bruciate. Non sentivo dolore ma tanta puzza di bruciato.

L'elettricista non si preoccupò di me e rimase nello sgabuzzino continuando a lavorare.

Mi fermai un attimo per riprendermi dallo shock, poi tornai a casa senza dire niente a nessuno. Pensavo che quello che era successo, fosse stata colpa mia.

A

vevo vent'anni, capelli lunghi, spalle da fusto e una corporatura atletica. Un figo, uno che le ragazze non cercavano perché pensavano irraggiungibile. Per questo motivo non ne ho avute molte.

Da piccolo dovevo essere stato molto" vivace", perché i miei genitori all'età di undici anni decisero di mettermi in collegio. Frequentai le scuole medie, e poi le superiori, ospite del collegio Vescovile GREGORIO XIV di Cremona.

Oggi ritengo che sia stata un'esperienza positiva, ma all'epoca la pensavo diversamente.

Sveglia alle sei e trenta, a messa prima di colazione e poi a scuola.

Ore di studio obbligate tutti i pomeriggi, interrotte da una ricreazione di mezzora per la merenda. Ore di studio la sera dopo cena.

Solo il lunedì, e il mercoledì, con il permesso dell'assistente, dopo che si era accertato che avevamo terminato i compiti, si andava a guardare il film in sala televisione. Non tutti i film erano adatti e il Rettore faceva da censore.

Dopo otto anni di collegio, frustrato, in una fase di rigetto, alla fine del quarto anno di scuola superiore mollai tutto e tornai a casa. La scelta non fu felice, l'avrei poi pagata in seguito.

Tornato a casa, dovetti cercarmi un lavoro, lo dovevo trovare subito. Mi rivolsi a un amico che gestiva un bar. Era il proprietario del bar "NUBE" di Voghera. Il locale di moda in quel momento, la prima gelateria come la intendiamo oggi, della zona.

Di notte preparavo i gelati che sarebbero stati venduti il giorno dopo. Cominciavo con i gusti alla frutta, prima quelli di colore chiaro, poi gradatamente quelli scuri e in seguito passavo alle creme lasciando per ultimo il cioccolato. Il cioccolato non potevo prepararlo prima, perché i residui che rimanevano nella macchina, avrebbero alterato il sapore di tutti gli altri. I gusti alla frutta si ottenevano amalgamando una crema gelato chiamata base, con frutta fresca frullata. Sbucciavo, spremevo, e frullavo cassette di frutta. Le creme si preparavano aggiungendo alla base, uova, panna, e polverine con aromi diversi. Il gusto più laborioso era il cioccolato, alla crema base andava aggiunto il prinz al cioccolato.

Il prinz era costituito da pezzi di cioccolato fondente fuso, che amalgamato a uno sciroppo di zucchero formava una crema densa e concentrata. Era anche il gusto più costoso, in quanto, per prepararlo si spendeva più di tutti gli altri.

Lavoravo ai gelati a giorni alterni, e la quantità di una notte bastava per due giorni.

Quando non creavo gelati, aiutavo il mio amico nel bar, e se capitava, e succedeva spesso, invitavo le persone che "alzavano il gomito" a uscire dal locale.

Feci questo lavoro per circa un anno, poi fui assunto in una fabbrica che produceva materiali isolanti termoacustici di Arena Po.

Era una piccola fabbrica che aveva meno di venti dipendenti. Quattro operai per turno nei tre turni che coprivano le ventiquattro ore, due addetti alla manutenzione, il direttore, e due impiegate. Il procedimento di lavoro consisteva nel fondere ad altissima temperatura il basalto, materiale roccioso, farlo colare alla giusta temperatura su un disco di acciaio, che girava ad altissima velocità, e di conseguenza lanciarlo con forza centrifuga lontano, sotto a una grande cappa.

Durante questo processo il basalto da massa incandescente assumeva l'aspetto di un batuffolo di lana filiforme, e si raffreddava.

La sua esile e leggera consistenza lo faceva rimanere in sospensione nell'aria per un attimo, dove subito era aspirato e soffiato all'interno di una macchina che lo predisponeva come un lungo e soffice tappeto su di un rotolo di carta bitumata.

A questo punto veniva cucito e trasformato in un lungo materassino.

Ogni dieci metri la macchina tranciava con una grande lama questo tappeto, l'operaio addetto lo avvolgeva su se stesso e lo infilava in un sacco di plastica. Questi rotoli di lana di roccia erano usati come isolante.

Io ero il capoturno di uno dei tre gruppi, e con me c'erano Danilo, Pietro e Vercesi. Non ricordo come si chiamasse di nome, l'ho sempre chiamato Vercesi.

Danilo aveva la mia età, molto disponibile, mi aiutava in tutte quelle che erano le mie mansioni. Pietro al quale mancavano pochi mesi alla pensione, lavorava alla fine della linea uno, insaccava i rotoli di lana di roccia e non voleva saperne di altri incarichi. Vercesi quarantacinque anni, addetto alla linea due, insaccava i rotoli.Spesso durante turno di notte si addormentava, e quando succedeva, di corsa dovevamo fermare tutto per evitare che si facesse male e che le macchine se inceppassero, perché ci sarebbero volute ore per riprendere la produzione.

Poi c'ero io, che dovevo garantire la produzione a fine turno.

Prima di andare a casa compilavo il rapporto sul lavoro svolto, scrivevo tutto quello che era successo durante le ore di lavoro.

Questi rapporti erano molto importanti, perché permettevano ai colleghi che venivano dopo di noi, di regolare la temperatura dei forni al meglio ricavandone di conseguenza una produzione ottimale.

Il tutto era legato alla temperatura esterna, all'umidità e al fatto che fosse introdotto nelle tramogge del basalto bagnato, piuttosto che asciutto.

I due altiforni andavano sorvegliati accuratamente.

Una crepa nel posto sbagliato associata a un cambio repentino di temperatura, poteva provocare addirittura il crollo del forno stesso.

Si era creata rivalità tra i tre turni.

Ognuno di noi voleva dimostrare di essere migliore, di produrre più degli altri, e questo ci portava a lasciare informazioni che non erano veritiere sul registro dei rapporti, a modificare qualche minuto prima della fine del turno tutte le regolazioni dei forni, in modo tale che chi subentrava nelle prime ore del turno successivo non riuscisse a produrre come doveva.

Succedeva inoltre che all'improvviso finisse la scorta di basalto, nonostante risultasse dal rapporto che le tramogge erano state riempite da poco, operazione che richiedeva un tempo di circa due ore di lavoro.

In conseguenza a tutto questo avevo elaborato un modo di operare che mi dava ottimi risultati, quando nella produzione non ero il migliore, ci andavo sempre molto vicino.

Al mio arrivo, indipendentemente dalle condizioni atmosferiche, regolavo sempre le macchine su una serie di parametri fissi che avevo studiato, e da questi con piccole variazioni basate sulle condizioni climatiche, in meno di un'ora raggiungevo le regolazioni ideali. Quando pioveva, per non bagnarsi, i colleghi lasciavano le tramogge esterne vuote. Infatti, per riempire questi enormi contenitori usavamo una pala meccanica, il"Caterpillar", senza tettuccio, dove nonostante l'impermeabile e gli stivali ci si bagnava da capo a piedi.

All'inizio del turno non andavo subito a riempirle, perché il basalto era accumulato in grandi mucchi a cielo aperto, sotto l'acqua.

Se avessi fatto il pieno carico nelle otto ore, sarei passato da condizioni di basalto bagnato, a umido, e in fine asciutto dovendo modificare in continuazione i parametri senza mai raggiungere la temperatura ideale.

Facevo invece, continuamente piccoli rifornimenti, mantenendo sempre all'ingresso dei forni basalto bagnato, e le stesse regolazioni per tutto il turno.

Prima di andare a casa, quando pioveva, riempivo le tramogge per i miei colleghi.

Il lavoro mi piaceva, anche se mi pesava molto dover fare i turni, da mezzogiorno alle venti, dalle venti alle quattro di mattina, dalle quattro a mezzogiorno del giorno dopo.

Avevo vent'anni lavoravamo la domenica, il giorno di Pasqua, quello di Natale, sempre, perché i forni non si potevano spegnere altrimenti le pareti di materiale refrattario si sarebbero sgretolate.

Ci fermavamo una volta sola l'anno, nel mese di agosto, per quattro settimane, così si poteva fare manutenzione ai forni.

Una domenica dopo una giornata passata con i miei amici, alle venti, mi presentai al lavoro.

Fu una serata tranquilla, senza problemi particolari.

Alle quattro di mattina, come il solito, al termine del turno compilai il rapporto sulla situazione e mi avviai verso i bagni per fare la doccia e tornare a casa.

Ero molto stanco.

All'ultimo momento decisi di non fare la doccia.

M'infilai il giaccone, raccolsi la borsa contenente sapone e accappatoio salii in auto e partii.

Avevo una Fiat centoventisette sport nuova, comprata tre mesi prima.

Entrai sulla statale e svoltai in direzione Casteggio. Passai prima Stradella e poi Broni. Giunto in località Cassinino, dove la strada diventa un lungo rettilineo, venni colto da un colpo di sonno ed uscii di strada.

L'auto attraversò la carreggiata di sinistra, s'infilò nel fosso e andò a sbattere contro un ponticello di cemento armato. Il colpo fu tremendo. Non portavo le cinture, colpii il volante con il viso, e tutto il corpo fu scaraventato contro la parte anteriore della vettura. Non sentivo dolore, ma non riuscivo a muovermi, ero confuso.

Il fosso conteneva di misura l'auto, di conseguenza le portiere si aprivano solo di pochi centimetri, ero chiuso in una trappola.

Con una mano mi pulii gli occhi coperti di sangue che colava dalle ferite, e mi accorsi alzando lo sguardo che dal cofano dove stava il motore uscivano delle fiamme.

Abbassai il finestrino per tentare di uscire dall'abitacolo, cercai con tutte le mie forze di divincolarmi dal groviglio di lamiere che mi tenevano prigioniero. Non riuscivo a muovermi di un centimetro. Mi fermai un attimo per raccogliere le forze. Pesavo novanta chili, ed ero tutto muscoli. Mi concentrai e sferrai un pugno, con tutta la forza che avevo, contro il parabrezza della macchina.

Dal dolore che sentii, pensai di essermi rotto la mano, ma il parabrezza rimase intatto. Sferrai un secondo pugno, ma anche questa volta niente. Cominciai a piangere e fui assalito dalla disperazione.

Non ero lucido, ma ero cosciente e mi rendevo conto di quello che mi stava accadendo.

Non sono un credente, non lo sono mai stato. Ricordo che guardando le fiamme che avanzavano sulla carrozzeria dell'auto, piangendo dissi "Se è vero che esisti aiutami".

Esausto mi abbandonai sul sedile ormai rassegnato.

In quel momento due gambe salirono sul cofano. Un signore cominciò a colpire il parabrezza con dei calci, e in breve tempo lo ridusse in briciole. Mi prese per i capelli e strappandomi letteralmente dalla macchina mi tirò fuori. Mi diede anche parecchi ceffoni perché tutti i movimenti che facevo mi procuravano un dolore insopportabile, e quindi mi aggrappavo al volante.

La prognosi fu blocco renale, frattura della mandibola, della mascella, dello zigomo e dell'orbita dell'occhio sinistro, frattura multipla ed esposta del femore sinistro.

Mi estrasse dalla vettura, e mi trascinò di peso lontano dall'auto in fiamme. Chiamò i soccorsi e al loro arrivo salì in macchina e se ne andò.

Dopo un anno di cure, interventi chirurgici, e riabilitazione, mi ripresi. Uscito dall'ospedale, volli incontrare il signore che mi aveva salvato la vita. Lo cercai, e lo trovai. Era il proprietario di un ristorante di Redavalle. In maniera risoluta mi disse che aveva fatto solo il suo dovere.

Mi raccontò che quando successe il fatto, stava tornando a casa dal pronto soccorso di Broni, perchè al telefono gli avevano comunicato che suo figlio aveva avuto un incidente stradale.

Era corso all'ospedale ma suo figlio non c'era. Gli avevano fatto un brutto scherzo.

Destino volle che suo figlio perdesse la vita l'anno dopo in un incidente stradale sulla circonvallazione di Milano.

F

resco di patente, senza un'auto tutta mia, ero disposto a sfidare il mondo seduto alla guida della centoventotto di colore giallo canarino di mio papà.

Era una vettura inguardabile. Aveva le forme di uno scatolone, un colore probabilmente ricavato dagli avanzi delle colorazioni di altre auto, e un motore potente quanto quello di una lavatrice, ma era la mia prima macchina.

Fino a quel giorno, per i quattro anni precedenti, avevo usato per le mie scorribande una vespa cinquanta di colore arancione. L'età che bisognava avere per guidare un mezzo di cinquanta centimetri cubici di cilindrata era quattordici anni. Ricordo che contai prima i mesi, poi i giorni, e infine le ore.

Il giorno del mio quattordicesimo compleanno mi presentai dai miei genitori, dicendo loro che potevamo andare anche subito a ordinare la moto. Ero convinto che presto avrei avuto anch'io una moto da cross. Aspirazione comune mia e di tutti i miei amici.

Esposi a mia madre quelli che erano i miei desideri, le descrissi la moto da cross che mi sarebbe piaciuta. Lei mi ascoltò senza interrompermi.

Disse che avrebbe valutato le mie richieste e poiché non c'era nessuna fretta per fare l'acquisto, replicò che avremmo avuto tutto il tempo per riflettere e fare la scelta giusta.

Passarono quindici giorni.

Il conflitto con i miei genitori s'inaspriva giorno dopo giorno, sempre di più, fino a quando, giunti a un punto in cui non era più possibile continuare, mi comunicarono la loro decisione. La moto da cross era da escludere.

Considerata l'età, l'uso che avrei dovuto farne, e la possibilità di andare in giro vestito bene senza sporcarmi, facevano della vespa cinquanta il mezzo ideale per me.

Al momento cercai di combattere, di oppormi alla loro decisione, ma vedendo la determinazione che avevano e considerato che non erano nemmeno convinti di comprarmi la vespa, accettai e facemmo pace. Il giorno dopo nel primo pomeriggio io e mio papà andammo al concessionario Piaggio di Casteggio. Scelsi il modello e il colore, e dopo tre giorni ritirai il mezzo. Ero l'unico vespista della compagnia. Tutti i miei amici erano riusciti a farsi comprare una moto da cross.

La usai come il peggior fuoristrada, non esitando a sfidare gli amici sul terreno a loro adatto, senza alcun riguardo per la vespa.

Una cosa devo ammettere a favore della scelta dei miei genitori. Dopo quattro anni tutti i miei amici avevano distrutto la loro moto. Alcuni l'avevano sostituita con una nuova, altri erano rimasti a piedi. Io invece fino a quel giorno avevo viaggiato con la vespina, caricavo fino a tre persone e partivo tutte le sere in cerca di una nuova avventura. Ora però era giunto il momento di mandarla in pensione.

Mi sono chiesto parecchie volte come mai mio padre scelse quel modello di automobile, ma non riuscii a darmi una risposta che mi sembrasse ragionevole. Era proprio brutta. In ogni caso, non trovai mai nemmeno il coraggio di chederglielo perché si sarebbe offeso.

Presi subito confidenza con la guida. Mi sentivo sicuro, e come fanno tutti i principianti che danno troppa confidenza al mezzo, tendevo a esagerare con la velocità. Sentivo di aver fatto un salto di qualità.

Quando le ragazze mi vedevano arrivare con l'automobile, mi trattavano da "Grande". All'inizio usavo la macchina solo quando a mio padre non serviva, e questo condizionava molto la mia vita di conquistatore di cuori. Mi resi subito conto che sarebbe stato opportuno compiere il passo successivo, avere un'auto tutta mia. Questo però non era possibile subito, allora adottai una soluzione di ripiego. La guidavo sempre io.

Quando mio padre doveva recarsi al lavoro, lo accompagnavo, quando era da andare a prendere andavo, anche se finiva il turno alle quattro di mattina. E naturalmente facevo da autista alla mamma per tutte le sue commissioni.

Mi ero appropriato dello scatolone con quattro ruote, di colore giallo canarino e un motore da lavatrice che mi faceva sentire adulto.

In quel periodo conobbi una ragazza di nome Stefania che abitava con la sorella e con il nonno a Borgoratto.

La mamma aveva casa a Voghera, del padre invece non ne parlò mai. Era una bella ragazza, bionda con i capelli lunghi e lisci. Aveva un caratterino difficile. Era scontrosa, eppure riusciva a creare interesse attorno a se. La sorella più piccola di statura era molto diversa da lei. Aveva i capelli castani e ricci, era molto socievole e più giovane.

Quasi tutte le sere io e Davide, compagno inseparabile di mille avventure, andavamo a Borgoratto e parcheggiato lo scatolone, passavamo la serata conversando con le nostre amiche. Desideravo che venissero con noi in macchina, poiché farci vedere dagli amici con ragazze al nostro fianco, significava essere diventati "Grandi". Prima di ritornare a casa ci accordavamo per la sera successiva. Con il tempo riuscimmo a convincerle a salire in macchina, prima per un giro sulle colline, poi ci accordarono la loro fiducia e accettarono di spingersi fino a Casteggio.

Tutte le sere quando tornavamo a casa, partivamo dalla piazza di Borgoratto e sentendomi io un pilota di rally, e Davide un navigatore, cronometravamo il tempo che impiegavo per arrivare fino alla piazza Cavour di Casteggio.

Di solito ritornavamo a casa a tarda notte, quindi non incontravamo nessun'altra macchina sul percorso. Ero soddisfatto dei tempi che riuscivo ad ottenere, che di sera in sera miglioravano.

Quella ragazza mi aveva stregato.

Un sabato sera andai a Borgoratto, da solo. Avevo chiesto a Davide di non venire perché volevo rimanere solo con Stefania. Lei vedendomi arrivare senza Davide allontanò la sorella con una scusa.

Quella sera non successe niente di diverso dalle altre.

Passammo la serata, chiacchierando e siccome ero andato solo, lei rifiutò di salire sull'auto. Passata la mezzanotte mi salutò e si ritirò.

Rimasi deluso, perché la serata non era andata come mi aspettavo. Imboccai la strada del ritorno a tutta velocità.

Dovevo sfogare il mio nervosismo e puntai a battere il record ottenuto fino a quella sera. In quel momento non stava piovendo, ma nel pomeriggio c'era stato un acquazzone. Le strade erano ancora bagnate e sui bordi alcune pozze rendevano scivoloso l'asfalto. Affrontai le prime curve in maniera perfetta. Percorsi volando la prima parte del tragitto viaggiando al limite. Conoscevo la strada come un pilota conosce il percorso della pista dove gareggia. Mai ero andato così veloce. Superata la prima metà del percorso, quella più difficile, mi sentii davvero bravo.

Fino a quel momento avevo incontrato una sola auto che procedeva in senso contrario, quindi nulla mi aveva costretto a rallentare. Ancora pochi chilometri difficili e poi sarei arrivato sul rettilineo di Cappelletta, che mi avrebbe condotto al mio nuovo record.

Nell'ultima prova avevo fatto fermare il cronometro su tredici minuti esatti da piazza a piazza, che non era per niente male, considerando che stavo guidando uno scatolone giallo. Passai il rettilineo e tenni la destra dirigendomi verso Rivazza. Arrivato in prossimità del bivio, che divide le strade che portano una verso Montebello e l'altra a Casteggio, svoltai a destra e accelerai. Quella curva era l'ultima difficoltà, e proprio in quella curva persi il controllo della vettura.

Con le due ruote di sinistra finii nel piccolo fossetto che in quel punto costeggia la striscia di asfalto.

Cercai di uscire, di ritornare sulla strada, ma la macchina proseguiva diritta come su in un binario.

Se avessi atteso la fine del fosso, probabilmente, sarei riuscito a risalire sulla strada, invece sterzai verso destra cercando di riprendere subito il controllo, ma la macchina pur avendo le ruote girate proseguiva diritta.

Raddrizzai il volante e provai di nuovo, ma niente, non rispondeva. Allora diedi un colpo di sterzo molto brusco, e proprio in quel momento le gomme aderirono al terreno e l'auto balzò a tutta velocità sull'asfalto mettendosi di traverso. Tutto questo si era svolto in un istante.

Come io abbia fatto a compiere tutte quelle manovre, in quell'attimo, mi meraviglia. Tuttavia ricordo che subito dopo la curva, sulla parte destra della strada, si trovava un cancello che in quel momento era aperto. Con la macchina andai a sbattere contro un'anta del cancello. L'auto spinta dalla grande velocità si girò compiendo una rotazione di centoottanta gradi, facendo spalancare lo sportello di guida. Io fui sbalzato all'esterno, rimanendo imprigionato con i piedi incastrati sotto i pedali del freno e della frizione.

Mentre l'auto scivolava nel cortile dal fondo di ghiaia, frantumando i manufatti di cemento che di volta in volta incontrava, io avevo le gambe imprigionate all'interno della vettura, il resto del corpo all'esterno con la schiena e la testa trascinate sul terreno.

La vettura si fermò contro un'enorme botte di cemento, danneggiando pure quella. Mi alzai da terra spaventato. Non mi ero fatto niente di grave. Guardai verso il cancello e un brivido percorse il mio corpo.

Con la testa avevo sfiorato il gancio di metallo che sporgeva dal terreno dove si agganciava il cancello quando veniva chiuso.

Lo scatolone giallo era distrutto.

Distrutte, erano anche tutte le botti che si trovavano in quel cortile, e neppure il cancello era rimasto intatto.

Nonostante il frastuono provocato dall'incidente, nessuna luce si accese alle finestre delle case circostanti, così pensai che fossero disabitate. Cercai inutilmente di far ripartire l'auto. La carrozzeria era danneggiata in tutte le sue parti e dopo alcuni tentativi per metterla in moto decisi di tornare a casa a piedi.

Nonostante tutto anche quella volta me l'ero cavata. Ritornato a casa, raccontai a mio padre che ero rimasto a piedi perché il motore si era fermato e non ero più riuscito a farlo ripartire. Volle sapere, dove l'avevo parcheggiata e poi andammo a letto perché era molto tardi.

La mattina seguente fui svegliato dalle sue urla, che alzatosi di buon'ora era andato a recuperare l'auto, ed era tornato deciso ad uccidermi.

F

acevo il portalettere, e lavoravo all'ufficio postale di Casteggio, una professione che mi piaceva.

Non era un lavoro difficile, e una volta imparato quello che chiamavamo giro, tutto diventava automatico.

Poiché il mezzo di trasporto che usavamo per la distribuzione della corrispondenza era una moto, succedeva che nelle giornate di pioggia, e in quelle particolarmente fredde era difficile lavorare nonostante l'azienda ci fornisse guanti, giacconi, e impermeabili.

Queste difficoltà erano compensate nei periodi estivi e soprattutto in primavera, quando lavorare all'aperto, era veramente piacevole.

Il nostro orario di lavoro era di sei ore giornaliere, dalle sette e trenta alle tredici e trenta.

Questa era la condizione che apprezzavo più di tutte perché ci permetteva di avere tutti i pomeriggi liberi e si poteva dedicare molto tempo ad altre attività.

Quell'anno come in tutti quelli precedenti, mi ammalai d'influenza. Quella malattia di stagione colpi prima mia moglie, poi mia figlia e per ultimo toccò a me. Mia moglie e mia figlia seguirono le prescrizioni di Piero, il nostro medico di famiglia. Prima gli antinfiammatori, poi l'antibiotico, e in fine i fermenti lattici per la flora intestinale.

L'unica differenza, fu che a mia moglie, venne prescritto un farmaco che aveva come principio attivo l'acido acetilsalicilico, mentre a mia figlia il paracetamolo. Appena si sentirono meglio, come fanno tutti, abbandonarono le cure e smisero di prendere i farmaci.

Metà delle pastiglie per ogni scatola si erano avanzate. Passarono una decina di giorni e mi ammalai anch'io, poiché i farmaci sono molto costosi, decisi di curarmi usando le medicine rimaste. Non fu un'influenza leggera, quindi prima usai i farmaci avanzati da mia figlia, poi finii gli altri.

Dopo una decina di giorni, anche se non mi ero ristabilito del tutto, tornai al lavoro.

Non avevo più febbre, la tosse mi era passata quasi del tutto, ma soffrivo di uno strano stato di affaticamento.

Mi succedeva durante il lavoro di dovermi sedere per riprendere fiato, perché mi sentivo sfinito, e riuscivo a portare a termine la giornata di lavoro a fatica. Mi ritrovavo completamente sudato, anche in momenti in cui questa reazione era del tutto ingiustificata. Avevo incolpato dei miei malesseri la debolezza provocata dall'influenza. Pensavo di aver ripreso il lavoro tropo presto, e che a breve mi sarei sentito meglio.

Un giorno durante la distribuzione della corrispondenza, mettendo la moto sul cavalletto, scivolai e con la gamba destra andai a sbattere contro la pedana del Liberty.

Istintivamente alzai il pantalone per vedere la ferita e rimasi meravigliato, sulla gamba avevo numerose macchie violacee, sembravano ematomi. Guardai anche sull'altra gamba ed era la stessa cosa. Ero spaventato.

Ritornai subito in ufficio. Siccome l'ora corrispondeva con l'orario di visita del medico di famiglia, pensai di andare subito in ambulatorio per avere chiarimenti.

Raccontai a Piero quello che mi era successo. Lui mi visitò, poi senza dire niente alzò il ricevitore compose un numero di telefono e scambiò alcune parole che io non udii. Chiusa la comunicazione, con aria preoccupata mi disse di andare al MAD di Voghera, un laboratorio di analisi mediche, dove mi avrebbero fatto un prelievo di sengue e poi di ritornare da lui.

Sempre più preoccupato, mi avvia verso Voghera. Fatto il prelievo, ritornai all'ambulatorio di Piero e mi accomodai nella sala d'aspetto con gli altri pazienti. Non sapevo cosa pensare, Piero non mi aveva dato spiegazioni.

Cercavo di distrarmi conversando con le altre persone in attesa, ma non riuscivo a togliermi il pensiero.

Dopo circa un ora il dottore uscì dall'ambulatorio, vidi che con lo sguardo mi cercava e mi alzai per farmi individuare. Vedendomi, mi sorrise e m'invitò a seguirlo.

Mi fece accomodare, e m'informò che il suo amico del laboratorio aveva chiamato, che il suo sospetto era fondato. Dall'analisi del sangue risultava che il valore delle piastrine era di 10.000 unità contro un valore normale di circa 250.000 unità.

Io non capivo, e chiesi cosa dovevo fare, mi consigliò di recarmi subito all'ospedale di Pavia, al reparto di ematologia, lui conosceva una dottoressa di quel reparto, mentre andavo, l'avrebbe chiamata per spiegarle la situazione.

Ritornato a casa, misi due cambi di biancheria intima in una borsa, un pigiama, lo spazzolino da denti e partii alla volta del Policlinico.

Alla clinica mi aspettavano, dopo pochi minuti ero ricoverato.

Nel frattempo era venuta sera mi trovavo in una camera solo, l'infermiera sorridendo mi rassicurò e mi suggerì di riposare, perché il giorno dopo avrei dovuto affrontare una giornata difficile, spense la luce e se ne andò.

Quella notte non riuscii a chiudere occhio se non per qualche minuto verso mattina quando sfinito, crollai.

Il giorno dopo, di buon'ora si presentarono un medico e due infermiere, attrezzati per fare un prelievo di sangue. Dalle analisi si sarebbe capito qual era il problema, e con una cura adeguata tutto sarebbe tornato a posto, mi dissero.

Quelle parole mi tranquillizzarono, almeno fino a quando non capii che le venti provette che si trovavano sul carrello che l'infermiera spingeva dovevano servire tutte per me.

Fatto il prelievo, ritornai a letto, e mi addormentai. Più tardi fui svegliato da una voce femminile che mi chiamava, aprii gli occhi vidi intorno al letto un'infermiera, alcuni medici, e il primario.

Mi fecero molte domande su quanto mi era successo nei giorni precedenti, su cosa avevo mangiato e bevuto, chiedendomi notizie su quello che era stato il mio comportamento di vita negli ultimi anni.

Mi spiegarono che con le analisi che stavano facendo, avrebbero capito quale fosse la causa dei miei problemi.

La mattina seguente si ripresentò lo stesso medico del giorno prima, con la stessa infermiera, con le stesse venti provette, dicendo che le analisi erano state tutte negative, e che quindi la ricerca continuava.

Fecero il prelievo, mi diedero due pastiglie di un medicinale al cortisone per far risalire il valore delle piastrine e se ne andarono.

Ero talmente preoccupato che anche se non sentivo dolori, non avevo il coraggio di alzarmi dal letto.

Alla terza mattina si ripeté la stessa situazione dei giorni precedenti, l'unica differenza era che la cura di cortisone stava facendo effetto, ma della causa scatenante ancora niente.

Nel pomeriggio decisi di uscire dalla camera, e mi avventurai per il reparto.

La razionalità che normalmente mi accompagna, mi stava riportando alla ragione.

Non ero mai stato, nemmeno come visitatore, in un reparto di ematologia, la maggior parte dei ricoverati erano bambini, tutti colpiti da leucemie.

Alcuni di loro camminavano lungo il corridoio trascinando il trespolo con appeso il flebo che dovevano tenere sempre collegato.

Nell'ultima camera infondo a sinistra, in uno dei letti, stava coricato un signore di circa quarant'anni. Al suo fianco, sul bordo del letto, una bambina appoggiava libri e quaderni appena estratti da una cartella, e aiutata dall'ammalato, faceva i compiti.

L'infermiera vedendomi incuriosito, si fermò e mi spiegò che l'uomo era il papà. Aveva la leucemia.

La bambina, tutti i giorni finita la scuola, nel primo pomeriggio, veniva a fare i compiti con lui.

Notai nei giorni successivi, che la piccola arrivava sempre alla stessa ora, senza essere mai accompagnata da nessuno.

Portava la cartella legata sulle spalle come uno zainetto, e sotto il cappotto vestiva ancora il grembiule della scuola.

Aveva i capelli biondi e lunghi, che teneva legati in un'unica treccia.

Nessun altro veniva mai a trovare quel signore.

Dopo qualche giorno, i valori delle piastrine si ristabilirono grazie alle cure, ma le continue analisi non avevano dato nessun esito.

Una mattina mi condussero in ambulatorio, mi fecero sdraiare su un lettino e rannichiare su di un fianco. Siccome tutte le analisi erano state negative, mi dissero che a quel punto rimanevano solo il prelievo del midollo spinale per escludere le leucemie, e l'esame per verificare la sieropositività.

Cercarono di rassicurarmi dicendomi che quelle analisi erano parte di un percorso, e che certamente non avrebbero dato nessun risultato.

Continuarono affermando, che non era la prima volta che succedeva, altre volte di non erano riuciti a individuare la causa del malessere.

Mi fecero il prelievo del midollo, operazione per niente piacevole, e mi accompagnarono nella mia camera.

Sempre più preoccupato, mi coricai e con lo sguardo fisso sul soffitto cercai di immaginare cosa poteva succedermi se uno dei due esami fosse stato positivo.

Per ore pensai alle situazioni peggiori, alla fine esausto mi addormentai.

Nel pomeriggio mi alzai e andai a sedermi nella sala d'aspetto, in una posizione che mi permetteva di vedere le persone che entravano nel reparto.

Puntuale come tutti i giorni arrivò la piccola scolaretta.

Al settimo giorno di ricovero, mi comunicarono che non ero affetto da leucemie, che per avere l'esito dell'ultimo esame, quello che più mi terrorizzava, ci sarebbero voluti quindici giorni.

Pertanato mi sarebbe stato comunicato a casa.

Mi dissero inoltre che il giorno dopo mi avrebbero dimesso, perché secondo loro anche quell'esame sarebbe stato negativo, e che a loro parere i miei malesseri erano dovuti a un'intossicazione da farmaci.

L'ultimo giorno, dopo essermi vestito, e aver raccolto tutte le mie cose andai a sedermi nella sala d'aspetto in attesa del certificato di dimissione.

Mentre aspettavo, mi ricordai della bambina, guardai l'ora, mancavano pochi minuti e poi sarebbe arrivata.

Passò l'orario ma non si fece viva, ricontrollai l'orologio, e vidi che funzionava, per me aspettarla era diventato un gioco.

Vidi l'infermiera dirigersi verso di me, mi alzai e le andai incontro.

Mi consegnò il certificato, e mentre la salutavo stringendole la mano, mi accorsi che il letto dell'ultima camera a sinistra dove avevo sempre visto sdraiato il padre della piccola scolaretta, era vuoto e rifatto.

Guardai l'infermiera con aria interrogativa, lei triste mi raccontò che ci aveva lasciato durante la notte.

L'esito dell'esame, dopo quindici giorni arrivò e fu negativo. Le cure di cortisone durarono ancora sei mesi, e le piastrine non risalirono più al loro valore normale, questo ancora oggi mi crea problemi.

Anche quella volta la fortuna mi aiutò.

Anno 2014 mancava poco al Natale, e come mi succedeva spesso di non passare le feste in salute e tranquillità, mi presi l'influenza.

Niente di diverso dal solito, antibiotici, paracetamolo e tutto quello che si fa di solito in quei casi. Il malessere gradualmente passò anche se non fu come tutte le altre volte, il tutto passò più lentamente lasciando qualche strascico. Qualche giorno dopo mi alzai e andando davanti allo specchio del bagno notai un rigonfiamento sotto al mento nella parte sinistra del viso.

Al mattino mi preparai per andare a lavorare come di consueto, proponendomi nel pomeriggio di passare dal medico.

Facendo colazione dopo il caffelatte era mia abitudine bere un bicchiere di acqua e limone, avevo letto che aveva funzioni benefiche per il corpo. Quella mattina la bevanda mi provocava un forte bruciore alla gola, uscii come di solito e andai al lavoro.

Nel pomeriggio il medico di famiglia mi visitò e mi disse "Hai un linfonodo gonfio, infiammato, ma è normale dopo un'influenza, prendi ancora l'antibiotico e vedrai che passerà."

Così feci, per una settimana antibiotico mattina e sera ma non passava, il linfonodo non si sgonfiava e al mattino la gola mi bruciava. Tornai dal medico, mi controllò di nuovo e constatò che nulla era cambiato, mi consigliò di proseguire ancora per qualche giorno con l'antibiotico che avevo preso la settimana prima.

Lo feci, per un'altra settimana una pastiglia al mattino e una alla sera, nulla cambiò.

Tornai dal medico che a quel punto mi disse " E' probabile che avendo preso molti antibiotici di quel tipo non facciano più effetto al tuo corpo." Mi cambiò antibiotico e mi disse di proseguire la cura con quel nuovo medicinale.

Nel frattempo, preoccupato feci più ecografie in vari laboratori privati della zona tutti con esito negativo, inoltre feci anche una visita da un noto medico otorino che mi rassicurò dicendo che non si vedeva niente di male.

Feci la nuova cura per un'altra decina di giorni, ma nulla cambiò.

Tornai dal medico che a quel punto con il telefono chiamò il primario di otorino di un ospedale vicino fissandomi una visita qualche giorno più tardi.

La cosa aveva preso una brutta piega, ero molto preoccupato, anche se le ecografie e le visite tendevano ad escludere malattie gravi.

Venne il giorno della visita, il primario di otorino, persona schietta risoluta mi disse che per capire quale fosse il problema bisognava fare un ago aspirato con guida ecografica, questo avrebbe chiarito su cosa ci trovavamo di fronte.

Prenotai subito privatamente ad un laboratorio di Pavia, e l'intervento lo fece un noto medico molto competente.

L'esito fu negativo, il linfonodo gonfio non aveva cellule tumorali, tornai dal primario con l'esito dell'esame, lei valutò quanto aveva scritto l'esaminatore e mi disse che secondo lei pur essendo negativo l'esame, il linfonodo sarebbe stato meglio toglierlo. Risposi che mi fidavo della sua competenza.

Eravamo a metà giugno, il primario mi disse" faccia pure le ferie, visto che l'esame è negativo," poi mi fissò l'intervento per metà luglio dove avrebbe asportato il linfonodo.

Partii per le ferie, in qualche modo più tranquillo ma non sereno. Furono ferie, diciamo godute a metà. Due settimane in Puglia al mare. Verso la fine della seconda settimana mi suonò il cellulare mentre ero in spiaggia, era l'ospedale che mi informava che il mio intervento, non essendo grave era stato spostato in avanti di una settimana, a quel punto d'accordo con mia moglie prolungammo le ferie di un'altra settimana.

Finite le ferie tornammo, fui ricoverato e operato. Al risveglio mi venne comunicato che il linfonodo era stato asportato ma sotto ad esso avevano trovato una massa delle dimensioni di un mandarino che andava valutata ed analizzata.

Passarono circa venti giorni poi fui convocato dal primario, purtroppo si trattava di una metastasi.

Il primario di oncologia contattò subito telefonicamente il primario di oncologia della clinica Maugeri di Pavia e mi fissarono un appuntamento.

Alla Maugeri dopo vari esami e una Pet mi comunicarono che mi avevano trovato un carcinoma squamoso sulla tonsilla sinistra e che effettivamente la massa asportata da otorino era una metastasi. Da internet appresi che la sopravvivenza prevista era di cinque anni.

Programmarono chemioterapia, e radioterapia, ma non subito, perché in quel momento non c'erano posti disponibili. Iniziai le cure a metà ottobre.

Facendo radioterapia alla gola, presto smisi di mangiare, non riuscivo più, facevo anche fatica a bere. Ricordo quella grande sala con una decina di poltrone dove veniva praticata la chemioterapia, luogo triste, le poltrone una di fianco all'altra, noi seduti con la flebo al braccio chiacchieravamo cercando consolazione nei nostri racconti, questo veniva cancellato quando arrivavi il mattino successivo e chiedendo come mai il tuo vicino di poltrona del giorno prima non fosse presente, ti rispondevano che non era più con noi.

Quelle cure furono devastanti persi nel giro di qualche mese circa quaranta chili, guardandomi allo specchio mi chiedevo fino a quando avrei resistito.

I medici che mi hanno curato sia all'ospedale di Pavia e soprattutto all'ospedale di Voghera erano e sono persone competenti che sapevano fare il loro lavoro al meglio.

Oggi sono passati più di nove anni e vengo considerato guarito.

Oltre a qualche medico che è stato veramente professionale e competente un grande abbraccio a mia moglie, senza di lei mi sarei fermato molto prima.

Anno2024 il mio medico di famiglia mi dice che sarebbe opportuno che facessi una colonscopia, mi dice che almeno una volta nella vita bisogna farla, per sicurezza, ecc. ecc.

Vado alla Clinica Maugeri di Pavia e mi sottoponga a questo esame.

Passano alcuni giorni comincio ad avere disturbi alla pancia

E

ro di nuovo in casa, coricato sul divano.

Mi sentivo turbato, spaventato e non capivo cosa mi stesse succedendo.

Mi guardai prima le mani e poi le gambe. Ero io, come sempre, con i miei cinquant'anni, e quella mia solitudine che sempre mi accompagnava.

Avevo rivissuto in sogno episodi della mia vita. Mi ricordai del programma alla televisione. Com'è condizionabile la nostra mente, pensai.

Avevo vissuto attimi di angoscia, suggestionato dal pensiero delle sette possibilità di sbagliare che il destino ci concede.

L'idea di averle già vissute tutte e sette, ora non mi preoccupava più.

La concomitanza degli avvenimenti mi aveva spaventato. Pensai a quanto le vicende della vita possano essere bizzarre.

Guardandomi intorno mi resi conto che la stanza era piena di fumo.

Cercai con lo sguardo la stufa, e vidi che lo sportello difettoso, si era lentamente spalancato.

Gli occhi mi lacrimavano, mi bruciava la gola.

Di scatto mi sedetti sul divano e mi ricordai che quella sera ero rimasto a casa solo. La stufa sembrava spenta, la stanza era buia. Mi alzai e mi diressi istintivamente verso la finestra.

Percorsi alcuni passi e la mia attenzione fu attirata da un piccolo bagliore, che proveniva dalle mie spalle.

Mi girai, e vidi che si trattava di una lingua di fuoco che appariva e scompariva da quello che era rimasto dell'ultimo pezzo di legna che si trovava nella stufa.

Un lampo di quella fiamma più forte di tutti gli altri, illuminò la stanza, e nella penombra coricato sul divano scorsi il mio corpo senza vita.

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