Filippo
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FILIPPO
Uno, due, tre e quaaattro .Uno, due, tre, treee, tre. Filippo si guardò attorno con aria indispettita ma non c'erano più beole da calpestare. Le forme geometriche che disegnavano il marciapiede erano finite. Con le gambe divaricate e in una posizione d'equilibrio precaria, quasi di dolore, rimase immobile. Così non avrebbe potuto continuare. Il percorso che stava seguendo era improvvisamente terminato, e lui si stava innervosendo. Si guardò attorno chiedendosi
se proseguire su quel lato della strada fosse stata la scelta migliore. Alzando la testa allungò lo sguardo cercando una soluzione, e come sempre la sua costanza fu premiata. Dall'altra parte della strada scorse la possibilità di proseguire sul
suo sentiero immaginario, bisognava però trovare il modo di attraversare la carreggiata.
All'improvviso il suo volto s'illuminò con un sorriso e i suoi occhi diventarono di nuovo rotondi e divertiti:si era accorto che poco più avanti erano state dipinte sulla fascia d'asfalto le strisce pedonali. Raddrizzò la schiena, si ricompose senza però spostare i piedi dalle beole e lanciò un'occhiata attorno per essere sicuro che nessuno stesse transitando su entrambi i marciapiedi, perché sapeva che alcuni suoi atteggiamenti potevano renderlo ridicolo.
Ora il problema era raggiungere le strisce. Si fece serio, appoggiò la mano destra sotto il mento e si fermò a riflettere.
La soluzione poteva essere una sola, visto che le beole non lo conducevano fino alle strisce, avrebbe potuto raggiungerle saltellando su una gamba sola ad occhi chiusi.
Ad occhi chiusi così non vedendo la scorrettezza, non si sarebbe sentito in colpa per aver barato. Uno, due, tre, quattro e cinque. Aprì gli occhi e le zebre erano davanti a lui, uno due, uno due, uno eeehh!!!, hoooops di scatto fece un balzo
all'indietro, un'auto stava per investirlo. Si voltò e vide la vettura allontanarsi velocemente come se nulla fosse accaduto.
"Cretinoooo!!! " gridò. Finalmente giunse sul marciapiede opposto. Ora poteva continuare verso la panchina della piazza,
dove tutti i giorni si sedeva in paziente attesa.
Saltellando di beola in beola, di mattonella in mattonella, passò davanti al bar e come tutti i giorni prima
sbirciò all'interno con indifferenza, cercando di non farsi notare.
Un'indifferenza che tutti notavano. Non riconoscendo nessuno, sempre attento a non uscire con le scarpe dal contorno
delle piastrelle del suo percorso, si concentrò sul sentiero da seguire e iniziò a saltellare di beola in beola. Mario il barista ,lo riconobbe.
«Ciao milanista», gli disse.
Lui si bloccò ed annuì.
«Dove stai andando?», continuò, anche se Mario sapeva bene dove stesse andando.
Filippo rispose che andava a sedersi sulla "sua" panchina, la terza dopo l'edicola.
«Bevi qualcosa?», continuò Mario.
«Sì», rispose Filippo.
«Ho sete».
Mario gli versò un bicchiere d'acqua gassata e Filippo bevve.
«Cosa vai a fare tutti i giorni, alla stessa ora su quella panchina?», insistette il barista.
«Vado a prendere il sole», rispose Filippo. Mentre posava il bicchiere sul banco lanciò un'occhiata all'orologio, e vide
che si era fatto tardi.
Senza finire l'acqua uscì di corsa dal bar, ritornò sul suo sentiero e uno, due, tre, e quattro, proseguì in direzione della piazza.
L'edicola era aperta ma nessuno faceva acquisti. Erano da poco passate le tredici, faceva molto caldo e in giro non c'era
nessuno. Filippo arrivò alla "sua" panchina ricontrollò l'orologio, era in orario, si sedette abbozzando un sorriso.
Con lo sguardo fisso verso il portone del condominio di fronte rimase in attesa. Scivolò verso la parte destra della panchina, quella che stava in ombra.
Era giunta l'ora.
«Ciao Filippo». Lui si fece serio, alzò la testa e si voltò preoccupato.
Era Sergio l'elettricista, che arrivò inatteso.
«Cosa fai?», gli chiese.
Filippo estrasse fulmineo dalla tasca un pacchetto di figurine di calciatori, abbassò lo sguardo su di esse e le avvicinò al viso.
«Sto guardando le figurine ,non vedi? Vai via, lasciami stare, che ho da fare». Con la coda
dell'occhio continuava a curare il portone del condominio, e a lanciare rapide occhiate all'orologio da polso.
Il tempo passava ma il portone non si apriva.
Un ronzio e uno scatto metallico ruppero il silenzio.
Splendida comparve Lucia. Indossava una gonna rossa molto sopra al ginocchio, una camicetta
bianca con una piccola greca rossa e blu sul colletto e sul bordo delle maniche.
La borsetta dello stesso colore delle scarpe. I capelli ramati, sciolti sulle spalle, leggermente arricciati e quell'ondeggiare di anche, la trasformavano ai suoi occhi in una dea.
«Ciao Filippo», disse lei.
«Ciao», rispose lui. «Sto guardando le mie figurine», continuò, senza mai perderla di vista.
«Dove vai?», chiese Filippo sornione.
«Al lavoro», rispose scocciata.
«Beato te che puoi farne a meno», aggiunse.
Lentamente percorse il lungo marciapiede svoltando dopo aver superato l'edicola. Lui la accompagnò con lo sguardo per tutto il percorso, fino a quando la vide scomparire dietro l'angolo.
Filippo si alzò, si guardò attorno cercando una piastrella diversa che gli avrebbe permesso di iniziare il percorso
di ritorno verso casa, con i suoi quarant'anni e senza rendersi conto del peso che la natura gli aveva messo sulle spalle,
down ma felice.
